Storia di Natale 2021_La magica notte di Max

Era la notte fra il 21 e il 22 dicembre, la notte di Yule, la più lunga e magica dell’anno.

Il Parco era buio e coperto di neve, grossi fiocchi bianchi scendevano lenti e silenziosi… niente vento, niente rumori, gli alberi erano fermi immobili e le luci del piazzale antistante il Castello si riflettevano sulla neve colorando tutto di giallo.

Faceva piuttosto freddo: l’acqua della fontana era congelata e gli spruzzi sospesi in aria componevano archi ghiacciati come di cristallo.

Max era appena uscito svogliatamente dal Castello a causa di un bisogno fisiologico che contava di espletare nel minor tempo possibile. Bella la neve, certo, ma solo se la guardi scendere mentre stai comodamente disteso sul calorifero caldo sotto la finestra.

Fuori sentiva il freddo pungergli le orecchie e gli arrivava al naso il profumo delle castagne che, dopo l’uscita dell’ultimo turista, i custodi avevano iniziato ad arrostire sulla piastra.

Proprio mentre stava zampettando di ritorno al Castello, evitando accuratamente gli accumuli più grossi di nevischio, Gatto sentì: SLAT, SLAT, SLAT.

“Oh, per tutti gli dei dell’Inverno!!”

Il custode aveva chiuso il portone d’ingresso per la notte, non avendo evidentemente notato l’uscita del felino.

“Miao! Meooo!! Mauuuuuuu!!!!”

Gatto provò a protestare ad alta voce fuori dalla grossa porta, ma nessuno lo sentiva: erano tutti a spellar castagne al caldo, ben lontani dall’ingresso.

“Ma che incompetenza! Che affronto!! Come si può non accorgersi che sono uscito! Sono molto, molto infastidito.”

Max si allontanò piuttosto contrariato e corse verso le scale del porticciolo, scese, rischiando più volte l’osso del collo sulle lastre ghiacciate, e si avviò verso le vecchie e disabitate cucine del Castello. Si ricordava che là c’era una piccola fessura sulla porta, dalla quale, non senza sforzo, riusciva a passare.

Entrò nella stanza buia e si accucciò su uno straccio buttato in un angolo del salone, vicino al vecchio forno da cui una volta uscivano i più appetitosi manicaretti per Massimiliano d’Asburgo. Si acciambellò il più strettamente possibile coprendosi il naso con la coda per scaldarsi e si mise a pensare ad un modo per rientrare a casa.

Pensa che ti ripensa si concentrò talmente tanto che alla fine si appisolò.

All’improvviso una musica forte e ispirata lo svegliò di soprassalto. Ancora inebetito si guardò intorno: era in biblioteca, accucciato sulla poltrona di velluto verde bosco di Massimiliano, il padrone di casa. Era tardo pomeriggio, le candele erano accese in tutto il piano terra del castello, dai caminetti si spargeva il calore del fuoco e un buon profumo di legno di pino che bruciava scoppiettando.

Max era molto confuso… che era successo?? Perché i suoi baffi erano arricciati all’insù come andava di moda nell’Ottocento?

Di nuovo prestò attenzione alla musica. Proveniva dai salottini di Carlotta. Gatto si alzò, scese con un tonfo elegante dalla poltrona e si avviò a vedere che stesse succedendo. Si fermo all’entrata del salotto celeste, basito. Quello che vedeva non aveva alcun senso… oppure sì…

In salotto c’era Carlotta, con un vestito color carta da zucchero di seta pesante, enorme, e uno scialle di lana avorio sulle spalle. Stava suonando al fortepiano, tutta gasata. I suoi movimenti erano agitati, infervorati. Ad ogni passaggio delle mani sulla tastiera dell’antico (o moderno?) strumento i suoi capelli scuri svolazzavano di qua e di là, liberandosi dalla crocchia che li legava sulla nuca.

“TA TA TA DAAAAAAANNNN!!! TA TA TA DANNNNNNNNNNNN!!!!”

Mentre Max la guardava suonare ancora piuttosto confuso, si accorse della presenza di Pay, il maltese di Carlotta, addormentato sul vestito della pianista, che era così lungo e gonfio da toccare abbondantemente per terra.

La musica finì e le dame di compagnia, che stavano alle spalle della padrona di casa, si alzarono di colpo dalle loro sedie e si misero ad applaudire sonoramente la performance dell’arciduchessa. Carlotta si girò violentemente, con lo stesso sguardo di un direttore d’orchestra il giorno del concerto di Capodanno, per raccogliere l’ovazione. Quel gesto improvviso però fece muovere il vestito, e Pay rotolò a terra svegliandosi.

Il cagnolino aprì gli occhietti e, con una scossa della testa, si allontanò da quel chiasso. Arrivato in sala da pranzo trovò Max.

“Oh, Max! Proprio te cercavo, amico!”

Amico? Ma chi era costui? Gatto non lo conosceva… o sì?

“Ho un problema, un… anzi due grossi problemi, amico. Bau!”

“Di che si tratta, Pay?” Gatto parlò come se avesse sempre parlato con quel cane. Mah…

“Sai che fra poco è Natale, vero? Bau!”

“Sì, Pay, lo so.” rispose Max.

“Quest’anno i padroncini hanno deciso di invitare qui in Castello il fratello di Massimiliano, l’imperatore, e Sissi, sua moglie.”

“La spilungona?” chiese Max.

“Sì, la spilungona, bau!” rispose Pay. “Il problema, amico, è che la spilungona viene con i cani… Quei due enormi cani che la seguono sempre. Sono giganteschi, Max! E cattivi! Io temo per la mia vita, amico. Già una volta mi hanno minacciato di morte… Non mi tollerano per via del mio aspetto poco… poco…”

“Poco lupesco?” chiese Gatto.

“Esatto, Gatto. Sono dei bulli… ostili e arroganti, ecco… Ho paura, bau!”

Gatto si intenerì. Quel cane, in effetti, non era il classico cane da guardia, muscoloso e agile, degno discendente del lupo. Era un morbido peluche, un regalo della regina Vittoria d’Inghilterra alla cugina Carlotta. Un giochino, insomma, una compagnia a quattro zampe. Ma non per questo doveva morire, per tutti i Santi.

“Va bene, Pay. Troverò una soluzione, te lo prometto. Io odio i soprusi e le angherie, e questa è un’angheria con i fiocchi. E non i fiocchi natalizi… né quelli di neve…”

“Oh, grazie amico, bau!” rispose Pay con le lacrime agli occhi.

I due si separarono e Max tornò ad acciambellarsi sulla poltrona verde per pensare ad una soluzione a questi due grossi ed antipatici problemi.

“Ecco! Idea! Eureka!! Pay! Paaayyy!!” gridò Gatto all’improvviso.

Pay arrivò di corsa muovendo veloce le sue corte zampette. Non era andato lontano… era là, nello studio dell’arciduca, che fissava il gatto sperando di vedergli arrivare una delle sue buone idee in testa.

“Ho trovato!” disse Max arricciandosi i baffi. Ma perché poi lo faceva? Bo!

“Oh, amico degli amici, dimmi ti prego, bau!”

“Dobbiamo andare da Benda. E là vi spiegherò il piano.”

Benda era un topo. Un topo vero, nero, grosso, spelacchiato, con una cicatrice che gli passava dall’orecchio di destra al mento, passando per un occhio che non c’era più. Gli mancava una zampa, l’aveva persa rosicchiandosela via con i suoi stessi denti per liberarsi da una trappola. La coda era mozzata a metà. Sulla schiena aveva una macchia di pelo bianco, conseguenza di alcuni schizzi di varecchina che si era preso passando in lavanderia il giorno del bucato di qualche anno fa. Era brutto, insomma, ma l’animo era candido e dolce come la panna montata. Parlava in lingua, in modo aulico e corretto, tanto che si diceva che fosse stato il topo di compagnia di qualche professore dell’università, prima di arrivare misteriosamente al Castello.

Max e Pay corsero veloci in soffitta da Benda. Trovarono il topo intento a ricamare narcisi sui suoi nuovi asciugamani di cotone egiziano.

“Benda! Molla i tuoi ricami, amico topo! Abbiamo bisogno di te!” disse Gatto.

“Agli ordini, Max! Che bello vedervi! Volevo scendere, ma c’era quella musica assordante che le mie orecchie non riescono proprio a sopportare.”

“Ti capisco… ma ora vieni, amico! Ti racconto tutto…” disse Gatto.

Carlotta e Massimiliano erano seduti a tavola per la cena. Uno da una parte del lungo tavolo e l’altra dalla parte opposta. La stanza era illuminata da tante candele e dal caminetto acceso. I due stavano mangiando una calda zuppa di cozze, patate e fagioli, insaporita da crostini spalmati di burro salato e intanto Carlotta parlava e parlava e l’arciduca l’ascoltava (o no?) mentre sorbiva la minestra e beveva il suo vino preferito.

“Allora pensavo di far spostare la credenza di qualche centimetro più in là, così da poter mettere il tavolo sotto la finestra di destra. In questo modo potrei veder arrivare le cameriere con i piatti e indirizzarle con lo sguardo di qua o di là…”, così stava dicendo Carlotta, quando… “EEEEEECHECCCOSE’??!! UN TOPO?! E’ UN TOPOOOOO!!!”. L’arciduca alzò lo sguardo dal piatto e vide Benda correre a zig zag come un matto fra le scarpette da casa della moglie: due giri attorno ai suoi piedi e poi di corsa verso la biblioteca.

“Massimiliano!! Lo hai visto??”

“Sì, pratolina di primavera. L’ho visto.”

“Era un topo!””

“Sì, decisamente un topo.”

“E quindi??”

“Quindi cosa, mia violetta africana?”

“Non può!”

“Non può cosa”

“Stare qui!”

“Ma ci sta”

“Ma non deve!!”

“Carlotta cara, non è il primo topo che abbiamo in casa… Vedrai che il gatto lo prenderà appena lo vedrà.”

“Ma sei pazzo??”, disse lei, “Domani arriva quell’inopportuna di tua cugina! Quella non vede l’ora di prendermi in giro a corte! Appena tornerà a Vienna, andrà diretta da tua madre a dirle che ho i topi che vagano nella sala da pranzo dove faccio mangiare il suo figlio prediletto! Sarò la barzelletta dei suoi salottini per mesi! Ma scherziamo! Dobbiamo fare qualcosa!”

“Certo, amata primula marzolina. Cosa?”

“Eh, cosa!! In questa casa si creano un sacco di problemi, sempre, continuamente! E poi IO devo trovare le soluzioni!”

“Se non ci fossi tu, rosellina…”

“Fammi pensare… dobbiamo… dobbiamo spostare la cena da un’altra parte!”

“Bella idea, fiore di ciliegio. Dove?”

“Eh, dove! Dove… dove… Villa Lazzarovich! Hai ancora le chiavi?”

“Certo, le tengo per ogni evenienza.”

“Bene, molto bene… Allora le diremo che… che… che abbiamo deciso di fare la cena lì perché è in centro città. Che è più comodo per spostarsi in chiesa a mezzanotte per la messa. E poi la villa è vicina a quella pasticceria dove fanno quei terribili dolcetti alla violetta candita, che a lei piacciono tanto. Quell’esaltata penserà che lo abbiamo fatto per compiacerla e magari sarà un po’ più gentile con me. Almeno per qualche minuto…”

“Certo, amore! Una soluzione perfetta.”

“Ora vado! C’è da organizzare una guerra! Spostare tutto! Le pentole! Le pietanze già pronte! E dove li trovo tutti quei contenitori, per tutti i Demoni dell’Inferno! E poi le tovaglie di pizzo! E i bicchieri di cristallo! E le posate d’argento! E i piatti di porcellana! E tutto sto agrifoglio, sto vischio, sto pungitopo! Sti fiocchi, sti nastri! Non servono più qua, vanno portati là!”

E così, strillando i nomi delle sue dame di compagnia un po’ a casaccio, se ne andò in un turbinio di seta a righe verdi e oro.

L’arciduca alzò gli occhi e guardò la moglie correre impazzita verso le cucine: era peggio lei del topo, pensò, spostandosi la barba bionda e mettendosi in bocca una cucchiaiata di zuppa. Poi notò il piatto abbandonato da Carlotta dall’altra parte del tavolo. Quindi scostò la sedia, si alzò, prese la scodella ancora piena della moglie, l’avvicinò alla sua, si risiedette e si disse: “Credo proprio di meritarmi una seconda porzione.”

La mattina dopo, già molto prima dell’alba, nelle stanze del Castello sembrava che scoppiassero fuochi d’artificio: tutti correvano, spostavano, impacchettavano, rovesciavano, pulivano e lanciavano improperi a tutte le divinità adorate sul pianeta. Tutte, senza distinzioni e senza pregiudizi.

Carlotta era onnipresente, sembrava trovarsi simultaneamente in tutte le stanze del piano terra del palazzo e dirigeva i lavori della servitù muovendo le braccia come le pale di un mulino in un giorno di Bora nera.

Massimiliano era seduto alla scrivania, misurava e catalogava i fiori del calicanto nato spontaneamente in giardino: sfumatura di giallo, intensità di profumo, numero dei petali, dimensione del pistillo… tutto veniva accuratamente trascritto nei suoi quaderni. Praticamente, insomma, della cena di Natale non gli interessava il vero niente.

Pay si era rifugiato sotto al letto della cabina. Aveva pensato che, se Carlotta lo avesse visto, magari si sarebbe ricordata della sua esistenza e avrebbe deciso di portarselo appresso. Meglio quindi stare nascosti.

Verso le 11 la situazione cominciò a migliorare. Sempre meno persone giravano per il palazzo e molte carrozze erano già partite, strapiene di cose, dal piazzale del Castello verso la villa in centro a Trieste.

Finalmente il portone d’ingresso veniva chiuso a chiave e l’ultima carrozza si allontanava lungo il viale dei lecci sotto un cielo sempre più nuvoloso.

Silenzio. Che meraviglia.

Pay uscì dal suo nascondiglio e raggiunse Max alla solita poltrona color del bosco.

“Ce l’abbiamo fatta, amico! Bau! Mi hai salvato le penne! Bau!”. Pay era commosso, gli occhietti lucidi, la codina agitatissima, era insomma felice come una pasqua, anche se era Natale.

Ma si arricciò i baffi all’insù con aria di vittoria: “E’ finita, caro il mio Pay! Ora dobbiamo soltanto pensare a come passare in pace la nostra serata!”.

Qualche ora dopo, nel tardo pomeriggio, i due amici stavano chiacchierando amabilmente seduti sul morbido tappeto della biblioteca, quando, all’improvviso, un urlo echeggiò nella sale del palazzo.

“AMICI! AMICI!!”

“Benda!!” Urlò Gatto spaventato e con la coda gonfia. “Che urli a fare??”

“Ragazzi miei! Correte in cucina! E’ il miracolo di Yule!”

Max e Pay si diressero subito verso la chiesetta e da lì giù alle cucine. Arrivati trovarono Benda in estasi davanti ad un caldo pentolone strapieno di gulash suppe.

“Guardate! E’ lo spirito di Yule! Ci ha fatto un regalo!”

Gatto guardò Pay e gli sussurrò. “Glielo dici tu al topo che la cuoca si è semplicemente dimenticata di portar via una pentola?”

“Ma perché? Bau!” rispose Pay “Lascialo credere alla magia!”.

E così i tre amici presero tre belle ciotole di ceramica inglese e le riempirono di gulash fumante. Poi si sistemarono davanti al camino ancora acceso e si misero a mangiare di gusto, mentre il vento dell’est portava i primi fiocchi di neve contro le finestre del Castello.

“MAX! MAAX!!”

Gatto si svegliò di soprassalto. Dov’era? Che anno era? Tutto intontito si toccò i baffi: erano di nuovo lisci e perfetti. “Ma che diavolo…”

“MAAAAXXXXXX!!!”

Il custode! Il custode lo stava chiamando! Si erano accorti che era rimasto chiuso fuori! Gatto scattò in piedi e corse alla fessura sulla porta, uscì con un colpo di reni e corse su per le scale innevate del porticciolo come una scheggia. Arrivò all’ingresso del Castello slittando sulle zampe posteriori e si mise a miagolare al custode.

“Max, eccoti! Sei tornato dal tuo giretto?”

Giretto? Ma questo non sta bene… Ci sarebbero delle cose da dire, se solo potessi… pensò arrabbiatissimo entrando nel palazzo.

Mentre la porta dietro di lui si chiudeva e il naso cominciava a scaldarsi, sentì la voce gentile di una custode che gli diceva: “Vieni, vieni Max! Ti abbiamo lasciato una ciotola di gulash bella piena!”

Gatto si bloccò. Ma allora… allora lo spirito di Yule esisteva per davvero!! E, decisamente, doveva piacergli molto il gulash!

 

Testo di Carolina Tomasella e illustrazioni di Lorenza Fonda.

 

N.B.

L’autrice del racconto giura solennemente che nessuna castagna è stata abbrustolita in quel del Castello e che neppure le ciotole di gulash suppe fanno parte della dieta del Gatto.

Max è un gattone tigrato che vive nel Parco e che è diventato in questi anni la mascotte del Castello. Non gli è permesso entrare nelle stanze del Museo per motivi di conservazione delle opere presenti all’interno. Vive all’aperto, dove ha tutti i comfort degni della sua regale persona!

L’autrice si è presa qualche libertà per rendere il racconto il più somigliante possibile alla visione romantica e personale che essa ha della vita nel Castello e di chi ci abita o abitava.

Yule è la festa del solstizio d’inverno, che cade intorno al 21 di dicembre nel nostro emisfero (e intorno al 21 di giugno nell’emisfero australe). E’ una celebrazione di origini molto antiche, che segna il passaggio dalle tenebre alla luce: il giorno del solstizio d’inverno è quello con la notte più lunga, dal giorno dopo il dì tornerà pian pianino ad allungarsi. Yule quindi celebra il lento risveglio della Natura.

Le illustrazioni sono della bravissima Lorenza Fonda, la quale ha con Gatto una tale complicità da riuscire a coglierne l’essenza nei suoi bellissimi disegni.

Carolina